Lovesick: quando i trentenni giocano a fare i ventenni

“Non so che cosa sia peggio:
non sapere chi sei ed essere felice, o diventare quello che hai sempre voluto essere, e sentirti solo”

Se fosse una serie incentrata sui ventenni, la sitcom britannica Lovesick, prodotta nel 2014 per Channel 4, da mesi nel catalogo Netflix, non sarebbe niente male.
Se fosse sui ventenni, appunto.
Invece Lovesick parla dei trentenni, o meglio, di alcuni trentenni.
Caspita, forse addirittura della maggior parte dei trentenni. Di quelli di oggi, almeno.
Lo spunto da cui parte il plot è bizzarro e originale, senza dubbio: il single Dylan (Jhonny Flinn), scopre di aver contratto la clamidia ed è così costretto a ricontattare tutte le sue partner, per comunicar loro la notizia e invitarle a fare il test.
Nel corso di due stagioni, ripercorriamo così, attraverso flashback e continui salti temporali avanti e indietro, le disavventure sentimentali di Dylan e dei suoi roommates: Luke (Daniel Hings), il classico latin lover che colleziona un flirt dopo l’altro senza apparentemente provare mai nulla, ma che sotto sotto nasconde un cuore d’oro, sentimenti sinceri e bla, bla, bla, e la dolcissima e smielatissima (seppur adorabile) Evie (Antonia Thomas), timida, riservata, e prevedibilmente innamorata di Dylan.
Sempre nel corso delle due stagioni, difatti, assisteremo allo snervante ed esasperante (- SPOILER – perché non troverà un finale) tira e molla tra i due.
Una scelta narrativa prevedibile, banale (Joey e Dawson ci sono bastati) e che ormai risulterebbe noiosa in qualsiasi film o serie sui generis.

Lontano anni luce da un’altra comedy che affronta argomenti simili, You’re the Worst, decisamente più matura, dove i personaggi principali, Jimmy (Chris Geere) e Gretchen (Aya Cash) sono costruiti con una profondità e intensità tale da renderli reali e molto più vicini, anche nei loro peggiori difetti, allo spettatore, Lovesick racconta, senza mentire o romanzare più di tanto, difetti, vizi e idiosincrasie dei moderni trentenni che giocano a fare i ventenni.
È innegabile che alcune gag siano divertenti, così come lo è il fatto che Evie sia adorabile e Dylan, per certi versi, affascinante, soprattutto per la donna con lo spirito da crocerossina (Abigail, nella sitcom, appunto), e risate a parte, se la sitcom fosse incentrata su adolescenti quasi ventenni, davvero non ci sarebbero obiezioni.
Il problema invece, è che Lovesick punta i riflettori su quei trentenni superficiali e viziati che vent’anni non ce li hanno più, ma che si rifiutano di crescere, e anziché tentare seriamente di costruirsi rapporti affettivi saldi e concreti, si ostinano a perdere il loro tempo circondandosi di persone altrettanto narcisiste e insicure, riempendo di altro vuoto una vita già traballante e precaria, soprattutto sul fronte amoroso.

Cosa emerge da Lovesick?

A parte una brevissima parentesi sulla vita lavorativa di Luke, vediamo i protagonisti nelle loro rocambolesche serate alcoliche, quelle spesso da una botta e via, con sconosciuti ancora più soli di loro; scambi di battute in perfetto stile “small talk”, che non affrontano mai discorsi seri o realmente interessanti, che non scavano mai in fondo in una conversazione per scoprire davvero qualcosa l’uno dell’altra, ma lo fanno solo, appunto, per portarsi qualcuno a casa, e svegliarsi in compagnia la mattina seguente, per dimenticare ancora un po’ quella solitudine che li attanaglia.
I protagonisti di Lovesick sono quegli stessi trentenni che anziché rimboccarsi le maniche e dare una svolta seria alla loro vita, preferiscono piangersi addosso, crogiolarsi nelle proprie sfortune e deresponsabilizzarsi dai propri fallimenti.
Sono gli stessi per cui una selfie ben riuscita su Tinder, Facebook o Instagram, vale più di qualsiasi altra soddisfazione personale.
Gli stessi che parlano tanto d’amore, ma che forse, l’amore, neanche sanno cosa sia.
Perché s’innamorano (dicono) ogni cinque minuti, ma in realtà, si avvicinano ad amare solo loro stessi.
Ci si avvicinano sì, perché un sentimento simile, non sono ancora abbastanza maturi da provarlo.
Hanno paura: di mostrarsi per quello che realmente sono: perché per quanto sembrino forti, sicuri di loro stessi, del loro aspetto fisico e della loro “scelta” di essere single, in realtà sono più fragili di chiunque altro.
Ma mentre i quasi ventenni, avrebbero tutto il diritto di sguazzare in queste insicurezze e fragilità, dai trenta in avanti, sarebbe meglio spegnere per un attimo lo smartphone, mettere da parte il drink, e guardarsi allo specchio, per provare a guardarsi dentro.
Anche solo per pochi minuti.
Anche solo per dire di averci provato.
Sarebbe già qualcosa.
Sarebbe già un ottimo passo avanti.

 

“Abbiamo dimenticato cosa sia guardarsi l’un l’altro, toccarsi, avere una vera vita di relazione, curarsi l’uno dell’altro. Non sorprende se stiamo morendo tutti di solitudine”

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